Contro l’ansia da sostituzione

L’intelligenza artificiale suscita ansie da sostituzione, evoca scenari in cui l’uomo viene soppiantato dalle macchine. In realtà, il suo contributo alla crescita economica e al nostro benessere in generale sarà tanto più forte quanto più complementare le nuove tecnologie sapranno essere al lavoro umano. Dipende da noi farla evolvere in questa direzione. E’ un compito che pone sfide senza precedenti. Ma tutt’altro che impossibile. 

Tutti parlano di intelligenza artificiale (IA), ma pochi sanno davvero di cosa si tratta. Per questo fin dal primo numero di eco abbiamo voluto riservare una rubrica a chi davvero ci capisce qualcosa, a scienziati informatici, ingegneri elettronici e fisici teorici in grado di spiegare in parole semplici l’oggetto di tante attenzioni. Ci hanno sin qui chiarito che l’intelligenza artificiale generativa, quella in grado di produrre testi e immagini e di risolvere problemi complessi, funziona in modo molto diverso dal cervello umano. Al punto che viene da chiedersi se il nome “intelligenza artificiale” sia una geniale (e umana) invenzione di marketing per valorizzare dei super-computer che navigano a velocità mai prima sperimentate sulla rete sfruttando la gran mole di informazioni qui disponibili. 

La copertina di questo numero di eco è stata prodotta da ChatGPT4o cui abbiamo chiesto di autorappresentarsi, più precisamente di fornire un’immagine dell’intelligenza artificiale generativa. Come vedete, non è certo l’immagine di un cervello umano. Eppure, si intravvede un nucleo centrale, un hardware, a livello sottocorticale e diversi fasci di luce, assoni-like, attraverso cui dovrebbe correre l’impulso elettrico che proietta a una sorta di corteccia cerebrale. Quindi l’equivoco rimane. Forse perché per capire le differenze fra l’intelligenza umana e l’intelligenza simulata dovremmo prima riuscire a capire meglio i meccanismi alla base dei nostri ragionamenti e, come ci ricordava Tomaso Poggio sul numero di giugno di eco, i progressi negli ultimi anni sono stati più nell’ingegneria elettronica che nelle neuroscienze.  

Quale impatto avrà su tutti noi?

Quando parliamo di intelligenza artificiale ci interessa però soprattutto sapere quale impatto avrà sulle nostre vite, sulle interazioni sociali, sull’economia, sul lavoro, sulla salute, sull’informazione e sul funzionamento delle nostre democrazie. Sono quesiti che inquietano molti, generando ansie da “sostituzione”, scenari in cui l’uomo viene soppiantato dalle macchine. Del resto, di pessimismo tecnologico è lastricata la storia dell’umanità. Molte predizioni catastrofiche sulle conseguenze delle nuove tecnologie si sono, alla prova dei fatti, rivelate infondate. La fine del lavoro soppiantato dalle macchine è stata decretata centinaia di volte. Eppure, nelle economie di tutto il mondo si continuano a generare milioni di posti di lavoro e il tasso di occupazione (il rapporto fra occupati e popolazione in età lavorativa) è stato pressoché ovunque in crescita sia nel corso del XX secolo che all’inizio di questo. Anche la disoccupazione è ai minimi storici in molti paesi. Ma le nuove frontiere del progresso tecnologico stanno ridefinendo il nostro modo di lavorare molto più che in passato. Le macchine non sono soltanto in condizione di sostituire l’uomo in attività ripetitive, di routine, ma anche in mansioni e professioni intellettuali. Compiti che un tempo erano appannaggio esclusivo dell’uomo, come scrivere, tradurre, disegnare, produrre video, possono essere svolti da macchine anziché da persone. E si teme che invece di essere noi a guidare questi sviluppi e a utilizzarli per elevare la qualità del nostro lavoro, siano gli algoritmi a prendere il sopravvento, a decidere loro per noi in direzioni svantaggiose per l’umanità. Si teme che si arrivi alla creazione di entità super-intelligenti che hanno valori non allineati con quelli degli esseri umani, come HAL 9000, il computer di bordo di 2001 Odissea nello Spazio

Il dovere di governare il cambiamento 

Per valutare il fondamento di queste preoccupazioni diffuse non potevamo rivolgerci solo a scienziati informatici, ingegneri elettronici o fisici teorici perché la valutazione dell’impatto futuro dell’intelligenza artificiale richiede competenze che vanno ben oltre questi orizzonti disciplinari. Abbiamo perciò interpellato scienziati sociali che si sono dedicati da tempo a questi temi, lavorando a stretto contatto con chi è alla frontiera della ricerca sull’IA. Come vedrete, i testi che hanno scritto per noi non offrono tesi univoche, ma piuttosto scenari alternativi. Ci sono molti “se”, molti “dipende”. Sappiamo che sarebbe molto più rassicurante non avere questi periodi ipotetici e capiamo la delusione dei lettori che non troveranno in queste pagine una visione definitiva sul futuro dell’IA. Ma nessuno è in grado di dispensare certezze sugli sviluppi futuri di tecnologie per loro natura duali, nel senso che possono trovare applicazioni le più disparate sia in campo civile che militare. E poi gli scenari alternativi, i “se”, i “dipende” a loro modo ci danno una risposta. Ci dicono che l’impatto futuro dell’intelligenza artificiale dipende da noi, da come riusciremo a gestire il progresso tecnologico, a indirizzarlo verso obiettivi condivisi, minimizzandone eventuali effetti indesiderati e ponendovi per tempo rimedio. In altre parole, il progresso tecnologico non è qualcosa cui assistere passivamente. Siamo noi a disegnarlo, a indirizzarlo. Forse mai come in questo momento c’è un ruolo per i governi, nell’indirizzare la ricerca, nel ridurre la concentrazione del potere economico data dall’accesso esclusivo a immense banche dati, l’abuso di posizioni dominanti e nel sanzionare utilizzi perversi dell’intelligenza artificiale.

Il problema è come farlo. Dovremmo giocare d’anticipo, come sembra aver voluto fare l’Europa con l’Artificial Intelligence Act, di cui abbiamo trattato nel secondo numero di questa rivista, introducendo regole restrittive anche a costo di soffocare lo sviluppo dell’IA? Oppure consapevoli della velocità dei cambiamenti in atto e del fatto che le invenzioni sono per definizione imprevedibili, dovremmo prepararci a intervenire a cose fatte per sanzionare eventuali comportamenti devianti? Se si sceglie la seconda strada, bisogna attrezzarsi per intervenire rapidamente cercando di rendere l’adozione dell’intelligenza artificiale un processo reversibile nel caso qualcosa andasse storto.

C’è poi un secondo problema, non meno intricato, di giurisdizione. Chi può regolare l’IA o sanzionare le sue applicazioni indesiderabili? Chi ha autorità per intervenire generalmente opera su scala nazionale oppure di blocco regionale (Europa, Stati Uniti), ma qui abbiano a che fare con attori che si muovono su scala globale. Pensiamo, per esempio, all’esportazione di tecnologie di riconoscimento facciale operata dalla Cina verso regimi totalitari, che documentiamo in questo numero. Cosa si può fare per impedire che l’IA venga utilizzata per soffocare ogni anelito democratico in regimi dittatoriali? Non è un rischio solo teorico. I regimi autocratici hanno aumentato le importazioni di queste tecnologie cinesi nei periodi in cui l’opposizione interna era particolarmente agguerrita. Forse solo restrizioni al commercio globale messe in atto a livello multilaterale possono impedire – o comunque fortemente ridurre – questo tipo di transazioni.  

Il contributo dell’IA alla crescita economica

I mercati finanziari, le borse di tutto il mondo credono che l’intelligenza artificiale sarà un potente antidoto contro il rallentamento della crescita indotto dall’inverno demografico nei paesi avanzati. Se diminuisce la popolazione attiva, l’unico modo per mantenere tassi di crescita sostenuti è aumentare la produttività del lavoro invertendo la decelerazione in atto. Gli scenari più ottimistici implicano una crescita economica aggiuntiva dovuta dall’intelligenza artificiale di circa l’1,5% all’anno. Può sembrare poco ma in realtà è tantissimo. Un paese che senza l’IA cresce mediamente dell’1%, con la spinta aggiuntiva conferita dalle nuove tecnologie riuscirebbe a raddoppiare il proprio reddito nazionale in meno di 30 anni anziché in 72 anni. Uno dei fattori più importanti per permettere a uno scenario così positivo di materializzarsi è che l’IA sia complementare anziché sostitutiva del lavoro umano. Questo perché altrimenti il lavoro spiazzato dalle nuove tecnologie diventerebbe improduttivo o si sposterebbe verso segmenti a più bassa produttività. In altre parole, gli obiettivi di aumentare la crescita e tutelare il lavoro sono tutt’altro che antitetici nella gestione dell’intelligenza artificiale. Politiche di formazione all’IA su vasta scala e misure volte a stimolare un utilizzo complementare al lavoro delle nuove tecnologie sono due facce della stessa medaglia.

Ma rendere l’intelligenza artificiale complementare al lavoro umano non è sempre facile. Ci sono mansioni in cui le nuove tecnologie chiaramente sostituiscono il lavoro umano. Pensiamo al caso dei doppiatori cinematografici. Come competere con macchine in grado di replicare la voce originale degli attori, traducendola tempestivamente in tutte le lingue del mondo e rendendola coerente coi labiali? In altri casi sono i lavoratori stessi che si oppongono alla collaborazione con l’intelligenza artificiale. L’esempio dei medici è eloquente a riguardo. L’adozione dell’intelligenza artificiale potrebbe aiutare tantissimo nella prevenzione di malattie terminali o comunque croniche, aumentando la possibilità di avere una vita non solo più lunga, ma anche una vecchiaia sana e riducendo gli oneri dei nostri sistemi sanitari. Eppure, come mostriamo, molti medici si rifiutano di utilizzare l’IA come strumento di supporto diagnostico.  

Gli algoritmi e le grandi piattaforme

Non vogliamo con questo sostenere che bisogna sempre e comunque fidarci degli algoritmi. Siamo consapevoli del fatto che, delegando loro le scelte, si può arrivare a risultati socialmente dannosi. C’è anche un problema di responsabilità, di accountability. Se per un algoritmo diventa ottimale – rispetto all’obiettivo da massimizzare – discriminare o colludere, chi sarà responsabile delle sue scelte? Gli algoritmi utilizzati sulle grandi piattaforme che tutti conosciamo – Netflix, Spotify, Booking, Amazon, Ebay, Airbnb, Uber, Vinted e tutti gli altri – per personalizzare l’offerta svolgono una funzione utile nel meglio orientare le nostre ricerche sul web verso ciò che noi desideriamo. Ci consentono di trovare molto rapidamente ciò che cerchiamo facilitando le interazioni fra compratori e venditori, proprietari di case e affittuari, guidatori e passeggeri. Offrono anche opportunità di reddito a chi vende servizi in modo saltuario o vuole disfarsi di beni di cui non ha più necessità e che possono invece ancora servire ad altri. Ma questi algoritmi possono anche influenzare le nostre scelte indirizzandole verso alcuni beni e servizi che, in virtù delle raccomandazioni diffuse, subiscono forti aumenti di prezzo. Documentiamo come l’accesso esclusivo da parte delle piattaforme alle informazioni che ognuno di noi fornisce quando prenota un aereo, sceglie un ristorante, guarda un film, ascolta la musica, si informa, comunica con gli altri, compra dei beni e sceglie tra diverse modalità di pagamento possa, oltre a un certo livello, rendere i costi della personalizzazione dell’offerta superiori ai benefici. E mettiamo in luce come ci siano stati molti casi in cui le piattaforme hanno indotto con vari stratagemmi gli utenti a fornire informazioni che non volevano condividere e che non erano strettamente necessarie alla fornitura del servizio. Come si vede, la concentrazione, l’esistenza di poche reti dominanti, il fatto di poter fare tutto su una sola piattaforma, facilita la nostra vita. Più scelta, più comodità, più informazioni. Ma la concentrazione delle informazioni riduce anche la concorrenza, le startup di imprese innovative e pone problemi molto rilevanti sul piano della tutela della privacy. 

Necessario continuare a investire nell’intelligenza umana

Nella rivoluzione tecnologica in atto ci sono molte imprese in condizioni di svantaggio che rischiano di rimanere ancora più indietro. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi richiede conoscenze informatiche e capacità organizzative di cui spesso le piccole imprese, che dominano la struttura industriale del nostro paese, non sono dotate. Invece di anacronistiche politiche per il made in Italy che valorizzano beni in realtà spesso prodotti ovunque, tranne che in Italia, dovremmo pensare a varare politiche che favoriscano il trasferimento di conoscenze fra imprese e l’apprendimento diffuso delle opportunità offerte dall’intelligenza artificiale. L’apprendimento umano, a differenza di quello alla base dell’intelligenza artificiale, ha uno straordinario livello di efficienza energetica. Come ci ricorda Marc Mézard, un bambino a tre anni sa distinguere un gatto da un cane, mentre l’intelligenza generativa, per raggiungere questo risultato, ha bisogno di analizzare centinaia di migliaia di immagini di animali. L’apprendimento profondo richiede elevati consumi di energia dei data center con associate emissioni di carbonio. Vero che le informazioni processate dall’IA circolano molto più rapidamente che nel cervello umano (si parla di 10 millesimi di secondo anziché 100 millesimi di secondo per compiti semplici), ma le potenzialità di quel misterioso groviglio di neuroni che è il nostro cervello sono ancora in gran parte sconosciute. L’errore più grave che possiamo commettere in questo momento è pensare che l’intelligenza artificiale riduca la necessità di investire nell’intelligenza umana e nelle neuroscienze.   

direttore@rivistaeco.com

Possiamo governare l’intelligenza artificiale?
5/2024
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L’intelligenza artificiale suscita ansie da sostituzione, evoca scenari in cui l’uomo viene soppiantato dalle macchine. In realtà, il suo contributo alla crescita economica e al nostro benessere in generale sarà tanto più forte quanto più le nuove tecnologie sapranno essere complementari al lavoro umano. Dipende da noi farle evolvere in questa direzione. È un compito che pone sfide senza precedenti. Ma tutt’altro che impossibile.

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