Storicamente luogo di emancipazione e libertà, oggi le città diventano sempre più verticali e sempre più dense. Aumentano le esternalità e i conflitti di interesse, il che rende al contempo più necessario e più difficile l’intervento pubblico. Una sfida per le amministrazioni locali, ma anche per i governi nazionali.
Siamo sempre più cittadini nel mondo. La quota di popolazione che risiede nelle città è in costante aumento ovunque. Se agli inizi degli anni Sessanta solo un terzo della popolazione mondiale era urbanizzata, oggi due terrestri su tre abitano in città (si veda il grafico del mese). È un processo in atto tanto nei paesi in declino demografico quanto in quelli in cui la popolazione continua ad aumentare. Nei primi sono soprattutto (anche se non solo) le zone rurali a spopolarsi: le grandi città, a partire da New York e Tokyo, non smettono di crescere. Nei secondi la popolazione delle megalopoli aumenta ogni anno del 3-4%, raddoppiando perciò nel giro di soli venti anni (i nostri lettori si ricorderanno la regola del 72). Nuova Delhi ha oggi 35 milioni di abitanti, mentre ne aveva 17 nel 2005. La Cina storicamente poco urbanizzata (solo il 5% dei cinesi viveva in città all’inizio del secolo scorso) sta dando vita alle megalopoli del futuro: Shangai ha oggi 31 milioni di abitanti a fronte dei 17 milioni del 2005, a Pechino vivono 23 milioni di persone contro i 12 milioni del 2005. Si pianifica la costruzione di 91 nuove città in giro per il mondo, dall’India all’Egitto, dall’Arabia Saudita all’Indonesia, dall’Honduras agli Stati Uniti. Persino in Bhutan si progetta una Mindfulness City, ispirata ai principi dell’indice della Felicità nazionale lorda.
La concentrazione delle opportunità di lavoro e di reddito nelle grandi città, oltre che la ricerca di interazioni sociali, sono il motore di questa crescita impetuosa. Nei paesi avanzati solo due persone su cento lavorano nei campi. Anche altrove l’agricoltura offre un impiego a una sempre più piccola minoranza della popolazione. Sono prevalentemente i servizi a dare lavoro e la loro localizzazione è dettata da quelle che gli economisti chiamano economie di agglomerazione: conviene stare vicini gli uni agli altri. Sono talmente forti da spingere molti esercizi commerciali a posizionarsi in prossimità dei concorrenti. Ci sono strade monopolizzate dai venditori di scarpe, vie dove non si vedono altro che negozi di ceramica, zone urbane in cui a ogni portone c’è un ristorante. Il fatto è che chi vuole comprare scarpe, oggetti di ceramica o scegliere un ristorante va dove c’è questa grande offerta per avere più scelta. Per chi vende quei servizi il vantaggio di poter intercettare così tanti potenziali consumatori supera i costi di dover competere con gli altri venditori sul prezzo. E poi si può sempre cercare di differenziarsi dagli altri, offrendo un menu diverso, beni il cui prezzo non può essere immediatamente comparato a quello dei concorrenti perché questi vendono altre cose. E la differenziazione, a sua volta, fornisce maggiori opportunità di scelta ai consumatori.
Il valore dell’immateriale
Non tutte le città hanno saputo adattarsi alla terziarizzazione. Solo un terzo delle tradizionali città industriali ha saputo riconvertirsi e uscire dalla crisi provocata dalla chiusura delle grandi fabbriche che davano direttamente o indirettamente lavoro a centinaia di migliaia di persone. La comparazione fra le città che ce l’hanno fatta (come Pittsburgh) e quelle che invece hanno subito una lunga agonia (come Detroit) ci aiuta a capire quali siano i più importanti fattori di successo degli insediamenti urbani. Si pensa spesso che alla base della crescita delle città ci siano le infrastrutture fisiche, le strade, le metropolitane, la rete dei trasporti. Si pensa che le grandi opere, i grandi eventi, come le Olimpiadi, possano rilanciare quelle in crisi. In realtà, i grandi eventi spesso affossano le città e le riempiono di elefanti bianchi destinati ben presto a diventare ruderi e portano i comuni sull’orlo del fallimento.
La vera chiave per il successo delle città è quasi sempre in qualcosa di molto più immateriale: il capitale umano. Quel terzo di città storicamente industriali che è sopravvissuto alla deindustrializzazione ha potuto riconvertirsi grazie al fatto di avere una forza lavoro altamente istruita e di ospitare sedi universitarie e centri di ricerca. Anche se queste strutture danno lavoro a una fascia ristretta della popolazione, l’insediamento di personale altamente qualificato richiama altre persone qualificate generando molti altri lavori anche per chi ha un basso livello di istruzione, dai servizi alla persona alla ristorazione, al commercio al dettaglio, e così via.
Lavoro in remoto e IA come forze centripete
Molte tesi immaginifiche sull’evoluzione delle città dopo la pandemia, alla prova dei fatti, si stanno rivelando infondate. Il lavoro in remoto è un sostituto molto imperfetto del lavoro in presenza. Molti lavori non possono essere svolti in remoto. E anche per quelli che offrono questa possibilità, le imprese continuano a richiedere la presenza e compresenza ai propri dipendenti, nell’ambito di schemi ibridi in cui si lavora in parte a casa e in parte in ufficio. Questo perché sono le interazioni informali quelle che spesso portano alle invenzioni e ai miglioramenti di produttività. Le città non sono perciò diventate meno attrattive. Al massimo, hanno assunto una forma a ciambella con meno densità al centro e più densità nelle zone periferiche, dove i prezzi delle case sono alla portata di molti.
Anche l’intelligenza artificiale, come tutte le tecnologie della comunicazione, sembra destinata a essere meglio utilizzata nei centri urbani che nelle zone rurali. Può essere d’aiuto nel gestire le reti di trasporto pubblico, come nel raggiungere chi ha bisogno di assistenza sociale, migliorando la qualità dei servizi urbani. Ciò che caratterizza le città sono le interazioni e l’intelligenza artificiale le renderà più facili anche fra persone che parlano lingue diverse.
Città sempre più dense\
Lo sviluppo impetuoso delle città fa lievitare i valori immobiliari. Per contenere i costi dei terreni si demolisce e si ricostruisce in verticale. Negli ultimi 120 anni il numero di grattacieli costruiti in giro per il mondo è aumentato del 5% in media per anno. Le città diventano sempre più alte, anche nei paesi in via di sviluppo. Le zone centrali di Nairobi, quelle con i prezzi più alti delle case, si riempiono di grattacieli. Le città diventano più dense, aumenta la concentrazione di abitanti per chilometro quadrato. E poi ci sono le orde di turisti che invadono le città d’arte, portando certamente reddito, ma anche sovraffollamento.
Tutto questo fa sì che aumentino nelle città, assieme alle conseguenze positive legate all’accesso più facile ai servizi e al lavoro, anche le cosiddette esternalità negative, cioè i costi che imponiamo agli altri semplicemente perché, ad esempio, prendiamo la macchina e nel nostro piccolo contribuiamo a creare traffico, allungando il tempo del tragitto da casa al lavoro di altri, oltre che inquinare. La pandemia ci ha dato tristemente una misura della forza e della pervasività delle esternalità negative nelle zone urbane. Molti più morti nelle città che nelle zone rurali in proporzione alla popolazione, nonostante i centri urbani possano contare su ospedali e medici migliori e la popolazione urbana sia più giovane di quella rurale. Laddove le esternalità sono più forti si sente maggiormente il bisogno dell’intervento pubblico, in grado di conciliare i comportamenti individuali con la ricerca del benessere collettivo. E invece le città crescono in modo disordinato, laddove devono essere costruite strade o zone verdi vengono costruite case, e appaiono sempre meno governabili.
Un governo per le città
In questo numero di eco discutiamo di come rendere più governabili le nostre città a partire da alcuni dei problemi più pressanti. Un governo locale ha bisogno di finanziarsi e per i comuni la tassazione dei patrimoni immobiliari può rappresentare la principale fonte di entrate. Discutiamo di come evitare che ciò colpisca le persone a basso reddito e abbia effetti depressivi sull’economia. Mostriamo come gli effetti economici e distributivi di diverse conformazioni delle reti di trasporto locale siano stati spesso molto diversi da quelli perseguiti dall’operatore pubblico. L’ansia di tagliare i nastri non deve mai silenziare le valutazioni dell’impatto di questi interventi. Cerchiamo di offrire misure dei vantaggi che si avrebbero in termini di riduzione dell’inquinamento sia atmosferico che sonoro dalla diffusione delle auto elettriche e dal potenziamento delle piste ciclabili. Valutiamo l’opportunità di regolamentare gli affitti brevi gestiti da piattaforme come Airbnb per prevenire la lievitazione dei prezzi delle case, che può alla lunga portare all’espulsione dei ceti popolari dai centri urbani e rendere proibitivi i costi della frequenza delle migliori università. Proviamo anche a immaginare come potrebbero essere delle città policentriche, ad arcipelago.
Avranno i governi locali la forza di intervenire su questi fronti? Il sindaco Sala nell’intervista che ci ha concesso chiama più volte in causa il governo nazionale, sottolineando come sia impossibile intervenire senza norme definite a livello centrale. Può sembrare un gioco allo scaricabarile oppure un portato del fatto che il comune di Milano e il governo nazionale sono sorretti da maggioranze con diversi colori politici. Ma è indubbiamente vero che i conflitti di interesse sono più forti nelle aree densamente popolate. Qualsiasi intervento, dalla costruzione di una pista ciclabile in una strada ad alta percorrenza al cambiamento della direzione di una via a senso unico, è destinato a scontentare, e in modo non marginale, qualcuno. Un governo nazionale riesce a essere più distaccato e a non subire le pressioni dei gruppi di potere locale. Inoltre molte delle esternalità delle città maggiori hanno sia una componente locale che nazionale. Ad esempio, le esternalità di capitale umano che generano agglomerazioni di imprese in settori avanzati a Milano hanno benefici in termini di reddito ed innovazione sia locali che nazionali. Quindi anche dal punto di vista strettamente economico è più che giustificata un’attenzione nazionale ai problemi di Milano.
Le città sono state storicamente il luogo dell’emancipazione e della libertà, la culla della democrazia. Ma non c’è luogo come le città dove valga maggiormente la frase di Martin Luther King secondo cui «la mia libertà finisce dove iniziano i diritti degli altri». È la ragione per cui abbiamo bisogno di governare la loro crescita e di imporre restrizioni ai comportamenti dei milioni di persone che le abitano in nome della ricerca del benessere collettivo. Nell’era della globalizzazione sono queste le scelte maggiormente alla portata degli stessi governi nazionali, sempre più impotenti di fronte ai fenomeni che hanno acquisito scala planetaria. Possono trovare nel supporto alla regolamentazione urbana una propria ragion d’essere. E il futuro di un paese è indissolubilmente legato al futuro delle sue città.
P.S. Nel prossimo numero di eco ci occuperemo del debito pubblico.