Trump II è molto peggio di Trump I

Nel suo secondo mandato, Donald Trump agisce nella convinzione di non avere limiti. In effetti ha meno vincoli che durante la sua precedente presidenza. Nessuno prova a contraddirlo e anche i famosi contrappesi del sistema americano appaiono indeboliti. I danni delle sue politiche commerciali saranno ingenti e ricadranno su tutti, perché nelle guerre dei dazi ci sono solo perdenti. L’Europa avrebbe l’occasione per imporre moderazione e regole. Il problema è riuscire a parlare con una voce sola, senza affidarsi a relazioni di amicizia presunte speciali.

 

Chi si illudeva che il secondo mandato di Donald Trump sarebbe stato all’insegna di una maggiore moderazione rispetto ai quattro anni della sua precedente presidenza ha dovuto prontamente ricredersi. Trump II è molto più aggressivo di Trump I.

Un Trump senza limiti 

Innanzitutto, il presidente Usa ora agisce, invece di limitarsi a minacciare di farlo. Nel periodo fra le due presidenze ha avuto infatti tutto il tempo di dotarsi di una sua classe dirigente, mentre nel primo mandato aveva dovuto appoggiarsi per lo più sull’élite preesistente, sentendosi tradito ogniqualvolta questa, a partire da Mike Pence, gli aveva suggerito moderazione. Oggi nessuno dei suoi più stretti collaboratori osa contraddirlo, come si evince dalle acrobazie di Marco Rubio, il segretario di Stato, riguardo ai tagli inferti da Trump all’assistenza allo sviluppo. In più, a differenza del passato, Trump II conta su un sistema giudiziario molto più compiacente, avendone lui stesso cambiato i vertici durante la prima presidenza. E opera in un mondo più frammentato di Trump I: un mondo con più guerre, con blocchi sempre più contrapposti non solo sul piano geopolitico, ma anche su quello dell’integrazione economica e degli scambi commerciali. Questo gli permette di avere meno contrappesi all’interno del suo blocco. Non è un caso che le prime misure protezionistiche siano state predisposte nei confronti di paesi tradizionalmente alleati degli Usa, come Canada e Messico, con cui gli Stati Uniti avevano intrattenuto rapporti di libero scambio, prima nell’ambito del Nafta (North American Free Trade Agreement), poi dell’Usmca (United States, Mexico, Canada Agreement) da lui stesso negoziato e oggi di fatto rinnegato. Il fatto è che si cerca la linea della minor resistenza: i dazi predisposti nei confronti di Canada e Messico – e poi temporaneamente sospesi di fronte alla reazione negativa dei mercati azionari – sono del 25%, mentre quelli verso la Cina sono “solo” del 10%, anche se si aggiungono alle tariffe, mediamente del 19%, su due terzi delle importazioni dalla Cina introdotte nel 2020. Trump II ha poi di fronte a sé organizzazioni multilaterali ancora più deboli e impotenti rispetto alla sua prima presidenza. Basti pensare al rassegnato silenzio con cui hanno accompagnato le sue prime mosse, dal ripudio degli accordi sul clima di Parigi all’uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità. Colpisce la mancata reazione dell’Organizzazione mondiale del commercio e delle istituzioni di Bretton Woods, Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale, di fronte alle guerre commerciali che sta scatenando. Sembrerebbe che non dicano nulla perché temono per la loro stessa sopravvivenza. Hanno adottato la strategia comunicativa dell’opossum: meglio fingersi morto per un po’ che morire per davvero. D’altronde, Trump ha solo quattro anni davanti per agire. Forse due, se combina disastri prima delle elezioni di midterm.

Il mercantilismo al potere 

Donald Trump ci sta riportando indietro alle concezioni della politica economica del XVI secolo. Ha una visione mercantilista del mondo: la potenza di una nazione dipenderebbe dal surplus commerciale (valore delle esportazioni superiore a quello delle importazioni) che riesce ad avere nei confronti degli altri paesi.

Una nazione che ha un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti viene vista come la vincitrice di una specie di braccio di ferro con le imprese americane, una nazione che sta rubando soldi agli Stati Uniti. In realtà è semmai vero il contrario. Un paese, come gli Stati Uniti, che mantiene un disavanzo commerciale nel corso del tempo, è un paese che riesce a trovare investitori disposti a finanziarlo. E i soldi così ricevuti – in eccesso a quanto raccolto vendendo ad altri stati ciò che produce – possono servire al paese in disavanzo per finanziare investimenti altrimenti non alla sua portata. Investimenti che, se ben indirizzati, potranno aumentare la sua capacità produttiva e il tasso di crescita del reddito nazionale, migliorando il benessere dei cittadini.

Trump ha anche una visione limitata delle interdipendenze globali. Questo spaventa perché significa che le sue politiche possono fare molti più danni di quelli che lui stesso si immagina. Pensiamo alle conseguenze dei dazi predisposti nei confronti di Canada e Messico. Possono fare molto male all’industria automobilistica americana perché proprio da quei due paesi provengono gran parte delle componenti di cui necessita. L’impressione è che lo stesso Trump non sia consapevole degli effetti delle sue decisioni, che danneggeranno in primis le tre grandi imprese automobilistiche di Detroit (General Motors, Stellantis e Ford), in uno degli swing states che gli hanno permesso di vincere le elezioni presidenziali. Un’altra interpretazione è che ne sia consapevole, ma non potendosi più ricandidare, non tema un’eventuale perdita di popolarità in Michigan, mentre i suoi oligarchi delle Big Tech non sono coinvolti in questa guerra (lo sarebbero molto di più in una vera e propria guerra commerciale con la Cina).

Giochi a somma negativa

In questo numero di eco documentiamo come le guerre commerciali non siano mai a somma zero. Non c’è un vincitore e un vinto e i guadagni del primo non sono uguali alle perdite del secondo. Le guerre commerciali comportano solo perdenti e i primi a pagare lo scotto sono i cittadini dei paesi che hanno introdotto dazi indiscriminati nei confronti degli altri paesi, costretti a comprare gli stessi beni a prezzi più alti e a subire i contraccolpi sulla crescita economica dell’innalzamento delle barriere commerciali.

Questo non significa che le politiche protezionistiche debbano essere bandite sempre e comunque. Al contrario, in un mondo sempre più frammentato, la protezione di industrie nazionali strategiche può essere giustificata in nome di considerazioni geopolitiche. Dopotutto, la politica energetica della Russia dopo l’invasione dell’Ucraina ci ha dimostrato che oggi non si esita a utilizzare la dipendenza economica come strumento di ricatto geopolitico. Inoltre, in pratica non esiste qualcosa come il libero scambio insegnato nei libri di testo di economia. Il commercio internazionale è regolato dall’Organizzazione mondiale del commercio che non proibisce forme di protezione quando giustificate, ad esempio, da concorrenza sleale di paesi che sussidiano fortemente l’industria nazionale per spiazzare le imprese di altri paesi. Quindi l’alternativa non è tra le guerre commerciali e il libero scambio, ma fra le guerre commerciali e un commercio internazionale regolato, alla ricerca di soluzioni cooperative. E così come le guerre commerciali hanno somma negativa, gli accordi commerciali a livello multilaterale hanno dimostrato di avere, in moltissimi casi, una somma positiva, nel senso di avere aumentato il benessere dei cittadini di tutte le parti coinvolte.

La risposta europea

Cosa può fare l’Europa di fronte alle guerre commerciali prossime venture? Certamente non può stare ferma. Significa innanzitutto che non può subire il “divide et impera” praticato dalla nuova amministrazione statunitense nei suoi confronti. Si legge spesso che, in virtù dell’amicizia fra Giorgia Meloni e Donald Trump, l’Italia potrebbe essere risparmiata dalle restrizioni commerciali. Ma le frontiere dell’Italia nei confronti degli Stati Uniti sono le frontiere dell’Unione europea: il nostro paese da solo non ha alcuna speranza di poter incidere su scelte che vengono compiute Oltreoceano. Non ha né gli strumenti (le politiche commerciali vengono decise a livello comunitario) né la forza negoziale per farlo. E poi, ammesso e non concesso che ci venga riservato un trattamento di favore rispetto ai danni inferti agli altri paesi dell’Unione, l’Italia ne subirebbe comunque i contraccolpi in virtù della fortissima integrazione economica che ha con gli altri paesi dell’Unione, a partire dalla Germania.

Un’Europa unita può rendersi meno vulnerabile in un mondo più conflittuale, ad esempio sostenendo la capacità produttiva e tecnologica della sua industria automobilistica. Può anche rafforzare l’integrazione commerciale con i paesi “connettori”, che hanno in parte sostituito la Cina nelle catene globali del valore dopo i dazi introdotti da Trump I. Come ci illustra il grafico del mese, le catene del valore hanno dimostrato una resilienza superiore alle aspettative. È ai paesi “connettori” e a quelli comunque non schierati nelle grandi guerre commerciali planetarie che l’Europa può rivolgersi. Per questo sarebbe un grave errore opporsi all’accordo Mercosur con cui Unione europea, da una parte, e Argentina, Bolivia, Paraguay e Uruguay, dall’altra, si sono impegnate a ridurre dazi su oltre il 90% delle importazioni (su questo punto si vedano sia l’articolo di Carlo Altomonte sia la rubrica “Sovrani in Europa”).

Come si è visto, Trump II ha molti meno vincoli di Trump I e questo lo rende potenzialmente molto più pericoloso. Ce lo insegna anche l’esperienza italiana con i governi populisti. Siamo stati salvati (e lo siamo tuttora) da rigidi vincoli europei, che hanno imposto moderazione alla politica economica evitando che venisse travolta dalla crescente polarizzazione della competizione politica. In un mondo frammentato, forse solo l’Europa può riuscire a imporre quei vincoli che servirebbero per evitare una degenerazione delle guerre commerciali. E per capire la posta in gioco bene non dimenticare che molte guerre militari sono scaturite da guerre commerciali. In quella del 1812 tra Inghilterra, Canada e Stati Uniti, scatenata dalla scelta degli inglesi di bloccare il commercio fra Francia e Stati Uniti, venne incendiata la Casa Bianca.

 

P.S. Il prossimo numero, in edicola dall’8 marzo, sarà su famiglie, lavoro e equilibri di genere.

 

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2/2025
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I possibili effetti delle guerre commerciali su redditi e inflazione

 

Nel suo secondo mandato, Donald Trump agisce nella convinzione di non avere limiti. In effetti ha meno vincoli che durante la sua precedente presidenza. Nessuno prova a contraddirlo e anche i famosi contrappesi del sistema americano appaiono indeboliti. I danni delle sue politiche commerciali saranno ingenti e ricadranno su tutti, perché nelle guerre dei dazi ci sono solo perdenti. L’Europa avrebbe l’occasione per imporre moderazione e regole. Il problema è riuscire a parlare con una voce sola, senza affidarsi a relazioni di amicizia presunte speciali.

 

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