Criminalità organizzata e illegalità diffusa fanno molto male all’Italia. La prima distrugge reddito, speranze e lavoro, anche se c’è ancora chi crede che produca ricchezza nelle aree più povere. La seconda è un terreno fertile su cui cresce quell’evasione fiscale che toglie risorse al paese. L’antidoto c’è e si chiama cultura. Magari con un aiuto dall’intelligenza artificiale.
Sappiamo bene quali sono gli effetti della criminalità organizzata sulla convivenza civile, sul rispetto delle leggi e delle norme sociali che ci siamo dati per vivere meglio gli uni accanto agli altri. Abbiamo una triste contabilità delle perdite di vite umane provocate da organizzazioni come la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Possiamo misurare il tributo di sangue pagato dalle forze dell’ordine e dalla magistratura, abbiamo contato le moltissime vittime innocenti e le vite distrutte anche di chi è riuscito a salvare la pelle, ma è sotto la minaccia costante delle nuove mafie. Abbiamo statistiche sulle morti per overdose associate al traffico di stupefacenti gestito da queste organizzazioni. Sappiamo quanto pervasiva è la paura che gli assassini seminano tra le comunità sottostanti al loro controllo.
La criminalità organizzata distrugge reddito e lavoro
Abbiamo, invece, conoscenze molto più approssimative su quali siano i costi economici della criminalità organizzata e c’è anche chi sostiene che queste organizzazioni abbiano un effetto positivo sulla crescita economica di molte aree depresse, se non dell’intero paese che le ospita. Creerebbero lavoro, certo illegale, criminale, ma pur sempre lavoro in zone dove le opportunità di impiego sono scarsissime. Riverserebbero i proventi delle loro attività sul territorio generando reddito e ricchezza anche per chi non fa parte delle cosche.
In questo numero di eco documentiamo che non è affatto così. La criminalità organizzata distrugge non solo vite umane, ma anche reddito. Toglie non solo speranze, ma anche lavoro. Non allevia il disagio delle aree depresse. Al contrario, le condanna al degrado e all’emarginazione. Sono proprio le zone più povere del nostro paese quelle in cui il mondo delle imprese è maggiormente infiltrato dalla criminalità organizzata, nel senso che c’è la più alta incidenza di imprese in cui almeno un proprietario o un amministratore o un sindaco appartiene a una organizzazione criminale o agisce per suo conto. E questa presenza si fa sentire nel condizionare l’attività dell’impresa o anche solo nel costruire relazioni col mondo della politica, coi poteri pubblici locali. Sono relazioni pericolose per l’economia locale: impediscono a nuove imprese di nascere e di svilupparsi, inibiscono la concorrenza e l’innovazione e inquinano le istituzioni che dovrebbero perseguire il bene comune.
Il denaro speso nella repressione della criminalità organizzata è perciò denaro ben speso anche dal punto di vista strettamente economico: è un investimento che si ripaga coi dividendi che è possibile conseguire togliendo spazio alle organizzazioni criminali. Calcolare i benefici economici dei successi raggiunti nel contrasto a mafia, ‘ndrangheta e camorra non è compito facile, ma di grande utilità. Serve per meglio indirizzare l’attività di polizia, le indagini della magistratura, i controlli documentali. È utile per concentrare le risorse scarse di cui disponiamo sulle politiche che hanno presumibilmente il più forte impatto sull’economia locale. E questo servirà anche a trovare maggiore sostegno popolare nella lotta senza quartiere alla criminalità.
Ci sono molte indicazioni che questi benefici sono consistenti. Quando si cerca di stabilire con metodi rigorosi ciò che sarebbe accaduto senza la presenza delle nuove mafie si giunge a stimare che sconfiggere la criminalità organizzata possa portare nelle realtà interessate a incrementi del numero di imprese attorno al 10%, ad aumenti dell’occupazione e del reddito fino al 20%. Probabilmente si tratta di sottostime perché è molto difficile valutare gli effetti indiretti sull’attività economica del ripristino della legalità.
L’aiuto che arriva dall’intelligenza artificiale
Abbiamo oggi nuovi strumenti per debellare il crimine organizzato. L’intelligenza artificiale, in particolare, può esserci di grande aiuto perché la criminalità organizzata ha le sue routine, i criminali tendono a ripetersi nelle loro strategie e nei loro comportamenti, che diventano così in qualche modo prevedibili. L’intelligenza artificiale generativa è proprio capace di identificare queste ricorrenze, queste recidività e predire dove, quando e come possano ripetersi. Ci sono già esperienze incoraggianti in questo uso predittivo dell’intelligenza artificiale. Raccontiamo in questo numero di eco dell’esperienza di KeyCrime, un software utilizzato dalla polizia a Milano, per coadiuvare le forze dell’ordine nell’identificare persone che potrebbero essere recidive nelle loro attività criminali. KeyCrime, come tutte le applicazioni dell’intelligenza artificiale, richiede grandi banche dati per essere efficace. Più ricche le banche dati, minore il rischio di errori.
Una ragione ulteriore per investire nell’intelligenza artificiale e nelle banche dati a disposizione delle forze dell’ordine è che le nuove mafie fanno ampio ricorso all’IA nel riciclaggio di denaro sporco, nella commercializzazione dei prodotti e nel reimpiego del denaro pulito. I drug designer di cui si sono dotate molte organizzazioni criminali alterano la composizione delle sostanze stupefacenti affinché non rientrino nella lista delle sostanze proibite. Se siamo più bravi dei criminali nell’utilizzare l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie, possiamo però anticipare queste mosse, ampliando per tempo la gamma di agenti proibiti dalla legge anziché arrivare sempre in ritardo.
L’illegalità diffusa si batte con la cultura e il contrasto della povertà estrema
In questo numero di eco trattiamo non solo di criminalità organizzata, ma anche di microcriminalità e illegalità diffusa. Non è chiaro come e in che misura questi fenomeni siano tra loro intrecciati. Si potrebbe pensare che in aree in cui c’è poco capitale sociale, in cui le istituzioni sono deboli e le leggi vengono applicate in modo approssimativo, in cui c’è ampia evasione fiscale e normativa si crei un humus favorevole allo sviluppo delle organizzazioni criminali. C’è un’ampia letteratura sociologica che sostiene questa tesi, che ritiene che una volta che si è fuori dalla legge il passo verso il crimine organizzato sia relativamente breve. Ma come documentiamo in questo numero di eco, la criminalità organizzata ha ormai preso piede anche in aree ad alto capitale sociale, come l’Emilia Romagna e il Veneto.
Il contrasto dell’illegalità diffusa richiede in ogni caso strumenti diversi da quelli meramente repressivi utilizzati nella battaglia contro la criminalità organizzata. Bisogna impedire che i comportamenti illegali diventino l’unica fonte di reddito per le famiglie più povere, ad esempio aiutandole quando, alla nascita di un figlio o alla perdita di un lavoro, cadono in condizioni di indigenza, come ci insegna il caso del Brasile. Si tratta poi di rompere il circolo vizioso per cui il mancato rispetto delle leggi da parte di alcuni diventa modello di riferimento e induce comportamenti analoghi o omertosi da parte di altri. È quel meccanismo che spiega come mai esistano ancora degli evasori totali, persone con un tenore di vita certamente incompatibile con l’incapienza, persone ben visibili nelle comunità cui appartengono, ma che nessuno si premura di segnalare alla Guardia di finanza.
Per contrastare questo tipo di comportamenti, lo strumento più efficace è quello della battaglia culturale. Ha tempi lunghi e per questo non è più rinviabile. La scuola ha un ruolo fondamentale nell’incoraggiare comportamenti coerenti con il rispetto delle regole di convivenza civile e la fornitura di beni pubblici. La sua capacità di educare va rafforzata soprattutto nei contesti più difficili. Come documentiamo, l’empatia, la comprensione degli altri, la sfiducia nel prossimo e l’autocontrollo sono attitudini scarsamente presenti nelle periferie urbane. L’abbandono scolastico coinvolge soprattutto le regioni più disagiate e alimenta il fenomeno dei Neet, persone che non studiano e non lavorano, nel quale il nostro paese vanta un certo non invidiabile primato.
È verso queste realtà che dovremmo indirizzare prioritariamente gli investimenti in istruzione, a partire da quelli contemplati dal Pnrr. Purtroppo, la scuola è l’ambito in cui siamo più in ritardo nell’attuazione degli investimenti del piano. Non solo, ma a tutt’oggi non sappiamo se quanto è stato speso è servito per dare Ipad a bambini già sovraesposti ai social media oppure per creare palestre e spazi socializzanti per i bambini e i ragazzi delle nostre periferie, sottraendoli al richiamo delle baby gang.
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