Il debito pubblico mondiale dopo il Covid ha raggiunto livelli senza precedenti. Questo, assieme alle tensioni geopolitiche in giro per il mondo, aumenta i rischi per i paesi maggiormente indebitati come il nostro. Che non può più permettersi di ipotecare il futuro con i condoni e i superbonus. Nei prossimi anni bisognerà fare spazio a maggiori spese in difesa e tutela dell’ambiente, necessariamente coordinando queste scelte a livello europeo. Bene che la Germania stia abbandonando la regola del bilancio in pareggio.
Fragile: si prega di maneggiare con cura. La valigetta del debito pubblico che viene metaforicamente consegnata a ogni nuovo ministro del Tesoro non sarà come la valigetta nucleare, ma può essere anch’essa, a suo modo, esplosiva. Se finisce in mano a qualche avventuroso (a proposito: bene che al Tesoro Usa ci sia Scott Bessent e non Howard Lutnick), può innescare una spirale di rialzo dei tassi ai quali si riesce a vendere i titoli di stato, deficit crescenti e ulteriori rialzi dei tassi fino a che non si trovano più compratori. A quel punto deve intervenire un prestatore di ultima istanza come il Fondo monetario internazionale (o la Commissione europea nell’ambito Ue), che concederà il credito solo riducendo la sovranità nazionale e imponendo aggiustamenti di bilancio molto impegnativi.
Famiglie e governi
Spesso i politici – la prima ci sembra sia stata Margaret Thatcher – tracciano analogie fra il debito pubblico e il debito di una famiglia. È un parallelo fuorviante perché le famiglie, a differenza dei governi, operano per lo più in condizioni date: decidono se indebitarsi o meno in base ai tassi di interesse praticati dalle banche e alle opportunità di guadagno (salari, mercato degli affitti, per esempio) che hanno di fronte a loro. Per quanto una singola famiglia si indebiti, il suo comportamento da cicala non ha effetti sui tassi di interesse praticati dalle banche alla clientela. Questi tassi vengono stabiliti, infatti, prendendo come riferimento qualche tasso di interesse di mercato, insensibile al comportamento di una singola famiglia. Nel caso di un governo, invece, non ci sono grandezze e vincoli dati. I parametri cruciali che rendono il debito più o meno sostenibile, i tassi di interesse, il tasso di crescita dell’economia, dunque le entrate fiscali future, sono tutti condizionati dal suo operato.
Un governo che esibisce rilevanti disavanzi di bilancio e che non sembra in grado di ridurli riuscirà a vendere i propri titoli di stato solo aumentando gli interessi sul debito, il che farà aumentare ulteriormente il disavanzo. Un governo che taglia le spese e aumenta le tasse per ridurre il deficit anno per anno e così il debito accumulato nel corso del tempo, se sbaglia le dosi degli interventi, può causare una recessione che riduce le entrate fiscali, anziché aumentarle, e fa crescere la spesa pubblica invece di ridurla.
Le famiglie hanno limiti oltre i quali non possono indebitarsi. Un governo, specie se ha di fronte a sé una banca centrale compiacente che acquista i titoli di stato, può indebitarsi ad libitum. Il problema è che, a lungo andare, gli acquisti finanziati dalla banca centrale emettendo moneta allontanano gli altri compratori e trascinano il paese nel baratro dell’iperinflazione, riducendo alla fame i ceti più deboli. Uscirne è poi molto faticoso, come testimoniato dalla cura da cavallo (narrata nelle pagine che seguono) cui è stata sottoposta l’Argentina nel primo anno di presidenza di Javier Milei per ridurre l’inflazione dal 270% al 60%. Nonostante tutto ciò, i titoli di stato argentini, dopo la crisi dei Tango bond, continuano a non trovare compratori sui mercati internazionali.
Il negazionismo sul debito pubblico
Insomma, i governi hanno di fronte scelte molto più complesse di una singola famiglia e, se sbagliano, fanno pagare i loro errori a noi tutti. Per questo, è bene affidarsi nella gestione del bilancio pubblico a persone competenti e reputate attendibili dai potenziali investitori. La loro credibilità serve a guadagnare tempo: un paese potrà ridurre il disavanzo in un periodo più lungo e con costi sociali minori se l’impegno del governo ad abbassare il deficit viene ritenuto credibile. L’esperienza ci insegna che i costi sociali del consolidamento fiscale sono maggiori quando gli aggiustamenti sono molto rapidi e lineari.
Fondamentale anche diffidare delle semplificazioni. Nella tradizione del negazionismo economico che eco si propone di contrastare senza quartiere, affiorano spesso tesi miracolistiche su come si potrebbe ridurre il debito pubblico senza colpo ferire. Si dice, ad esempio, che basterebbe che la banca centrale acquistasse tutti i titoli di stato in circolazione per poi distruggerli, evitando di farsi pagare gli interessi dal governo. Ma, come ci spiega Olivier Blanchard in questo numero, i mancati interessi incassati dalla banca centrale comportano una riduzione dei trasferimenti dalla stessa banca centrale al governo. Insomma, si concede con una mano quello che si toglie con l’altra. A seconda di come l’operazione viene congegnata, può risultare in una semplice partita di giro. O, se volete, una presa in giro da parte di chi propone la ricetta miracolistica.
Il mondo dopo la pandemia
Il mondo uscito dalla pandemia è un mondo con più debito pubblico (salito fino a quasi uguagliare il reddito generato in un anno sull’intero pianeta) e molta più instabilità generata da scenari di guerra e tensioni geopolitiche. La valigetta del debito va maneggiata con ancora più cura che in passato perché con tutti questi titoli di stato in circolazione basta poco per spostare investitori da un paese all’altro al minimo segno di instabilità. I premi al rischio sui titoli del debito francesi (Oat) sono schizzati verso l’alto, superando i rendimenti di quelli greci, di fronte alla crisi politica francese e alle difficoltà incontrate Oltralpe nel varare una legge di bilancio che riduca il disavanzo.
Per questi motivi gli economisti del Fondo monetario che, a titolo personale, intervengono su questo numero di eco ritengono necessario non solo stabilizzare, ma anche ridurre il debito pubblico. Quando quello mondiale è pari al 100% del reddito totale e, come oggi, la crescita mondiale si è ridotta fino a essere più o meno uguale ai tassi di interesse che prevalgono sui mercati internazionali, ogni disavanzo pubblico (al netto della spesa per interessi) porta ad aumentare il debito nella stessa misura. Simmetricamente un bilancio, al netto della spesa per interessi, con un surplus dell’1% (tecnicamente un avanzo primario), può ridurre il debito dell’1%.
L’Italia, il Pnrr e il debito buono
L’Italia ha un debito pubblico che si avvicina al 150% del reddito nazionale. Deve perciò avere avanzi primari più importanti per ridurre il debito ed è particolarmente vulnerabile a oscillazioni (spesso imprevedibili) nei tassi di interesse. Più alto il debito, più forte lo sforzo che bisogna compiere per ridurre il debito o anche solo per stabilizzarlo. Per questi motivi, non si può che dare un giudizio molto severo sulla insostenibile leggerezza con cui i nostri governi (da Conte II, a Draghi a Meloni) hanno varato e poi gestito il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
In un clima euforico ci siamo indebitati per oltre 120 miliardi senza sapere cosa poi farne, abbiamo dato continuità a interventi insensati come il Superbonus che, come documentiamo, operano come Robin Hood al contrario, togliendo ai poveri e dando ai ricchi. Inoltre, in tre anni e mezzo, non siamo ancora riusciti a mettere in piedi un sistema di monitoraggio adeguato su come stiamo spendendo le risorse del Pnrr e, meno che mai, una valutazione rigorosa degli effetti delle misure realizzate. Non ha senso distinguere fra debito buono e debito cattivo se non ci mettiamo prima in condizione di valutare l’impatto degli investimenti. Preoccupante che il Pnrr sia stato derubricato non solo dall’agenda politica (con il ministro incaricato che cambia lavoro a due anni dalla scadenza del piano), ma anche dal confronto pubblico. In questo numero proviamo a ricostruire a che punto siamo.
Il disinvestimento nel futuro
Si ritiene spesso che il nostro paese potrà essere salvato dalla ricchezza privata. Ricordiamoci dei grafici che Giulio Tremonti (allora ministro dell’Economia) orgogliosamente mostrava sulla plancia del Titanic, poco prima della crisi del nostro debito pubblico nel 2011, comparando il debito pubblico con la ricchezza privata. Come si vedrà nelle pagine che seguono, la ricchezza delle famiglie italiane si è fortemente ridotta in lunghi anni di stagnazione economica e oggi in Italia si risparmia meno che in paesi storicamente a forte indebitamento privato come gli Stati Uniti, mentre gli investimenti delle famiglie continuano a essere per lo più nel mattone e in attività che non sono in grado di sostenere significativamente il tasso di crescita della nostra economia. Se la ricchezza privata non dà l’impulso che potrebbe dare all’economia, l’unica interpretazione possibile di affermazioni come quelle di Tremonti è che si voglia tassare molto di più di quanto avvenga oggi i patrimoni degli italiani.
I nostri governi non sembrano certo essere stati più lungimiranti delle famiglie italiane nell’investire sul futuro del nostro paese. Al contrario hanno spesso disinvestito anziché investire. Anche nella legge di bilancio che sta per essere approvata dal nostro Parlamento ci sono i condoni che hanno costellato la storia delle finanziarie italiane dal Dopoguerra in poi. I condoni disinvestono sul futuro in quanto portano a entrate immediate per le casse dello stato a scapito di entrate future. Come ricostruiamo nelle pagine che seguono, il nostro gettito fiscale Iva si è fortemente ridotto a causa dei condoni che hanno dato cittadinanza all’evasione.
La difesa, l’ambiente e l’Europa
Nei prossimi anni bisognerà inevitabilmente destinare maggiore spesa pubblica oltre che alla sanità, alla tutela dell’ambiente e alla difesa. Ce lo impongono il cambiamento climatico in atto e i conflitti alle porte del Vecchio Continente. Sono investimenti indispensabili, ma che difficilmente aumenteranno il volume delle entrate fiscali future. Non possiamo perciò permetterci sprechi e duplicazioni di spesa tra paesi europei. Queste sono materie su cui non ha senso intervenire su scala nazionale. Bisogna che ci sia un forte coordinamento a livello europeo, giocando sul fatto che finalmente la Germania sembra avviata sulla strada di abbandonare la politica dissennata del bilancio in pareggio sempre e comunque.
Sarà l’Unione europea all’altezza di questo compito? Il nuovo presidente del Consiglio europeo e la nuova Commissione europea dovranno poter operare senza poter cambiare i Trattati, come ci spiega il primo presidente eletto del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, nell’intervista che compare su questo numero. Il ruolo di entrambi i nuovi presidenti potrà essere molto più rilevante che in passato. Il neo-presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, non si troverà più davanti decisioni preconfezionate dall’alleanza franco-tedesca. Quanto alla nuova Commissione, nasce con molti conflitti di competenza (ad esempio, competition con green, economy con productivity e competition) e commissari per lo più di basso profilo, la cui irrilevanza è testimoniata da lettere di incarico che richiedono loro uno “structural reporting” al presidente ogni sei mesi. In questo contesto sarà il gabinetto di Ursula von der Leyen a decidere. Non è necessariamente un male. Ricordiamoci la frase di Henry Kissinger: “non so che numero di telefono comporre se cerco l’Europa”. Seguiremo gli sviluppi nella nostra rubrica “Sovrani in Europa”.
P.S. Il prossimo numero di eco sarà sull’immigrazione.
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